Descrizione e approfondimenti
Il rostro di una nave da guerra romana, esposto nel nostro museo, è emerso dal fondale ghiaioso di Acqualadroni poco ad est di Capo Rasocolmo, l’antico Phalakrion Akron, il promontorio più settentrionale della Sicilia, prossimo all’imbocco tirrenico dello Stretto. Intorno a questo importante punto di riferimento marittimo sono avvenuti numerosi rinvenimenti subacquei, molti dei quali clandestini.
Prima che divenisse preda dei clandestini, il rostro è stato segnalato a poca distanza dal bagnasciuga, ed è stato recuperato l’8 settembre 2008, grazie all’intervento congiunto della Capitaneria di porto di Messina e della Soprintendenza del Mare, fondata dall’archeologo Sebastiano Tusa. È stato, quindi, restaurato dal Centro del Restauro del legno bagnato di Pisa, ed esposto per la doverosa fruizione pubblica nella città dello Stretto.
Il rostro era una grandiosa arma di offesa delle navi romane contro le flotte nemiche già dalla prima guerra punica e poi in tutta l’età repubblicana fino alle guerre civili: inserito nella chiglia, a dritto di prua, con le sue tre affilate lame orizzontali rinforzate da una verticale, costituiva un formidabile fendente di offesa che procurava l’affondamento dell’avversario.
La parte laterale dei fendenti è decorata da tre spade, due delle quali presentano una impugnatura a testa d’aquila o di grifone. Il motivo delle tre spade richiama il tridente di Poseidone- Nettuno e il suo dominio sui mari.
Si conserva la parte lignea della chiglia che era trattenuta dai perni di fissaggio del rostro alla nave.
Con il rostro sono stati messi in relazione i resti di un carico navale ritrovati nei fondali di Capo Rasocolmo, nel 1991, dalla Soprintendenza di Messina. Molti dati provano che questo relitto apparteneva alla flotta di Sesto Pompeo, proclamatosi “re di Sicilia” nel 43 a. C. L’imbarcazione potrebbe essere affondata nel corso della battaglia navale di Nauloco, nel 36 a. C., in cui egli fu sconfitto dall’ammiraglio Agrippa.
In connessione con il relitto è stato rinvenuto, infatti, un gruzzolo di 51 monete in bronzo, oricalco e argento, datate intorno al 36 a.C., e per metà appartenenti a zecche della fazione pompeiana.
A questa cronologia si accorda il rinvenimento di una lamina bronzea semilunata con un’iscrizione, realizzata con la tecnica a puntini, di cui si leggono solo le lettere CNP MAGNUS, interpretate dall’epigrafista Maria Letizia Lazzarini come CNEUS POMPEIUS MAGNUS: si trattava, con tutta probabilità, del collare di uno schiavo di Cneo Pompeo, morto in guerra in Spagna nel 45 a. C.
Apparteneva, quindi, al fratello di questi, Sesto Pompeo, la nave affondata durante la battaglia di Nauloco, con cui iniziò il Principato di Ottaviano Augusto.
Al carico della nave appartenevano: un lingotto in piombo con iscrizione del proprietario della miniera di provenienza che serviva per le riparazioni in mare, e quindici macine in pietra lavica , utilizzate come zavorra.
Le dieci gallocce bronzee, esposte accanto al rostro, servivano, invece, per tenere fissate le cime della velatura: sono a forma di testa di cigno con il collo ripiegato e le ali spalancate.
Al naturalismo delle gallocce si può avvicinare il morbido rilievo delle tre spade che decora il rostro: in particolare l’impugnatura a testa d’aquila.
Possiamo immaginare, quindi, che il rostro sia appartenuto alla bella nave della flotta di Sesto Pompeo. Ma è solo un’ipotesi affascinante, non suffragata da prove. Anzi, recenti studi la smentiscono facendo risalire il rostro di Acqualadroni alla prima o seconda guerra punica, quando le flotte romana e cartaginese si scontrarono nelle vicinanze.